top of page

I MIEI RACCONTI BREVI

Carità dissanguata

Genere: Thriller

Vincitore del concorso Noir in Banca, 2012

Corrado Guidi era un giornalista. Il suo cadavere fu rinvenuto durante una fredda mattina d’inverno, mentre le decorazioni ancora ammiccavano gioiose da corde tese fra i palazzi e gli impiegati della Private Equity Bank di Lugano riprendevano servizio dopo la pausa natalizia. Si trattava di una piccola banca, con una manciata di clienti. Tutti molto facoltosi – per essere presi in considerazione occorreva un versamento di almeno dieci milioni di franchi svizzeri – e tutti stranieri. Alcuni arabi, la maggioranza italiani. La sede era ubicata nell’esclusiva strettoia di via Pessina, nel cuore della città, abbracciata ad antichi caffè e prestigiose gioiellerie.

Ogni giorno, Tina Fanetti era la prima ad arrivare. Usciva presto di casa per allontanarsi un po’ dall’eccentrico marito, un sedicente romanziere affaccendato nella stesura del capolavoro che, a detta sua, avrebbe fatto impazzire gli editori. Fra i suoi compiti di assistente del direttore rientravano anche la spremitura delle arance – guai se non c’era il succo fresco! – e l’apertura di tutti gli uffici dell’ultimo piano.

Alle sette del mattino il sole non era ancora sorto. Tina non si accorse di nulla finché non accese la luce. L’urlo rimbalzò contro gli antichi palazzi fino a perdersi nel lago. Da quel momento si scatenò il caos. Paramedici, poliziotti e agenti della scientifica si accalcarono nel sancta sanctorum di Gennaro Mitiello, CEO della banca, mentre l’addetto alle pubbliche relazioni sudava sette camicie per calmare la stampa bramosa di notizie.

«Cosa diamine significa quella scritta?» sbottò Paolo Alfieri, increspando le folte sopracciglia. L’ispettore incaricato aveva quarantasette anni, i capelli ricci striati d’argento e mani grosse dalle dita tozze. Adorava il caffè, e quella mattina ne aveva già ingollati quattro.

Riccardo Bianchi, il suo braccio destro, scrollò le spalle larghe. «Stiamo verificando ». Sfiorava il metro e novanta e camminava leggermente curvo, quasi si vergognasse della sua altezza.

Sulla schiena del cadavere, qualcuno – molto probabilmente l’assassino – aveva tracciato una lunga serie di lettere e cifre. Il che era molto strano: di regola i colpevoli tentano di camuffare le proprie tracce, non perdono certo tempo a lasciarne di nuove.

«A occhio e croce pare il numero di un conto» s’intromise con voce gutturale Mitiello. Si passò una mano fra i lunghi capelli neri e sospirò, preoccupato per il danno d’immagine. Di quanto sarebbero scesi i rendiconti semestrali? Alfieri squadrò il giovane CEO. Appariva come appena uscito dallo studio di un’estetista, tanto era curato. E rilassato. Anche troppo, per uno che aveva appena visto un cadavere.

Forse le illazioni che lo additavano come «banchiere della mafia calabrese» non erano del tutto infondate, dopotutto. L’ispettore si ripromise di scandagliare a fondo la vita dell’uomo.

Qualche minuto dopo, il cellulare di Bianchi trillò. «I colleghi confermano che si tratta di un conto aperto nella filiale della United Banking of Bahamas. È intestato a un certo Vincenzo Schiavone».

Nell’udire quel nome, Mitiello sobbalzò lievemente. Mosse un passo verso l’ascensore.

Alfieri annuì. «Qualcosa di rilevante?»

«Parecchi versamenti. Sempre cifre tonde, comprese fra cinquemila e gli ottantamila euro.»

«Provenienza?»Bianchi avvicinò le labbra all’orecchio dell’ispettore. «Private Equity Bank». Mitiello doveva aver incrociato lo sguardo determinato di Alfieri, poiché tentò la fuga. Fu acciuffato dopo pochi passi.

«Mi ammazzano», continuava a mormorare una volta ammanettato.

Crollò dopo un interrogatorio serrato, durato alcune ore. Su consiglio del suo avvocato, accettò di cantare in cambio di uno sconto di pena.

«Fra i nostri clienti ci sono anche alcuni… malfattori », ammise. «Ogni anno, durante l’Avvento, riversano nella nostra banca vagonate di contanti, spesso in banconote di piccolo taglio. La mia banca ha l’ordine di spartirli su vari conti esteri».

«Da dove provengono quei contanti?» volle sapere Alfieri.

«Arrivano sempre tramite un corriere, che fisicamente li porta qui, in una valigetta».

«Sì, ma da quale attività sono generati?»

Mitiello tuffò il volto fra le mani, come se quella sottile barriera di carne potesse proteggerlo dalle sue stesse parole. «Truffano alcune associazioni caritatevoli, che proprio sotto Natale gestiscono ingenti flussi di donazioni ».

Lo stomaco di Alfieri si contorse rabbioso. Strinse il pugno.

Truffare delle associazioni caritatevoli?

«E Guidi aveva fiutato qualcosa. Da qualche settimana raccoglieva informazioni. Non so come sia entrato nel mio ufficio. Penso abbia una fonte tra i miei impiegati. Ho avvisato Schiavone del pericolo e lui mi ha assicurato che non ci sarebbero stati problemi. Non immaginavo che…»

«Perché l’assassino ha fatto in modo che scoprissimo tutto?»

Mitiello scosse la testa, mentre le lacrime gli rigavano le guance. «Non lo so».

Calò un lungo silenzio. «Però so chi è stato».

Alfieri strabuzzò gli occhi.

«È un picchiatore. Fa da scorta ai corrieri».

«Dove lo troviamo?»

La lingua di Mitiello schioccò. «Non si può trovare».

Così fu. Lo cercarono ovunque, ma quell’uomo pareva un fantasma.

Il motivo per il quale avesse lasciato loro quell’indizio, che aveva permesso di smantellare l’intera organizzazione malavitosa, rimaneva un nebbioso mistero.

Qualche mese dopo, Alfieri ricevette un SMS da uno sconosciuto numero estero:

 

Ho una figlia di tre anni. Dovevo uscirne. L’ho fatto per lei!

 

L’ispettore avrebbe potuto dare ordine di rintracciare il numero. Stava per chiamare i colleghi, quando pensò a sua figlia e a quanto fosse dolce a tre anni. Prima dell’incidente e dell’inutile corsa in ospedale. Alfieri non avrebbe mai scordato il volto accusatore, rigato di sangue, del giornalista ammazzato, la cui anima reclamava giustizia.

Poi ripensò al lancinante dolore che lo aveva dilaniato e che tuttora gli rendeva arduo sopravvivere. Poteva, proprio lui, separare una figlia dal padre?

Con le lacrime agli occhi, cancellò il messaggio.

 

FINE

Un labile confine

Genere: Sentimentale

Oggi ho rubato. Per la prima volta in quarantasette anni di vita ho rubato, capendo bene cosa stessi facendo. Non parlo dei furtarelli tipici dei ragazzini, quei taccheggi compiuti per il gusto di assaporare sulla lingua il sapore elettrico della sfida, per rompere le regole o per sentirsi “fighi” o “grandi” o più coraggiosi.
No, oggi ero del tutto consapevole del mio gesto. Le implicazioni e le conseguenze mi erano ben chiare.
Eppure ho agito.
È bastata una manciata di secondi. Un attimo prima ero io, quello dopo mi ero trasformato in un ladro.
Nascosto dietro lo scaffale, mi sono accosciato. Ho tolto il sacchetto dal cestino e l’ho infilato nello zaino, che poi mi sono fatto scivolare sulle spalle come nulla fosse. Per alcuni minuti mi sono guardato attorno con occhiate intermittenti e nervose. Avevo l’affanno e il cuore rimbombava contro le costole. Mi sentivo intrappolato, in gabbia, come se un’enorme mano mi stesse stringendo nel pugno, impedendomi di respirare.
Avrei voluto fuggire urlando, ma sapevo di non poter attirare l’attenzione. Comportati come sempre, continuavo a ripetermi. Hai fatto la spesa qui centinaia di volte. Fa’ il solito giro e andrà tutto bene. Per fortuna a quell’ora il supermercato era pressoché deserto, o sarei impazzito nel tentativo di rimanere calmo.
Solo adesso sono quasi sicuro che nessuno mi abbia visto. Se anche le telecamere di sicurezza avessero registrato qualcosa, ormai è troppo tardi. È incredibile quanto asfalto si possa calpestare in mezzora.
Arrivato al fiume, mi sono seduto su una panchina sotto un imponente ippocastano che mostrava i primi sbuffi bruni dell’autunno. Da un paio di giorni, il vento e la pioggia avevano costretto tutti ad abbandonare le scarpe di tela. Il Cassarate mormorava tranquillo in direzione della foce, ignaro del dramma che mi consumava dentro. Ho guardato ai piedi della piccola cascata sotto il vecchio ponte, dove l’acqua spumeggia tra le rocce semisommerse, e mi è venuta voglia di tuffarmi di testa.
Lo sguardo annacquato dalla compassione della giovane cassiera mentre contavo gli spiccioli, pregando di averne abbastanza, mi ha segato in due l’anima. Un fendente con un pugnale mi avrebbe ferito meno. Da un paio d’anni a questa parte, ogni notte mi addormento schiacciato dal senso di colpa e di totale impotenza. Le mie giornate sono un continuo bilancio in cui anche cinque centesimi contano. È strano come una piccola moneta dorata, spesso bistrattata e abbandonata in un barattolo sulla mensola poiché “inutile” e “fastidiosa”, possa assumere un valore opposto in un quadro di riferimento diverso.

Non che prima guadagnassi una fortuna – sia chiaro – ma riuscivo perlomeno ad arrivare alla fine del mese senza troppe acrobazie contabili o rinunce. Talvolta, addirittura mettendo da parte qualcosa.
Finché…
Beh, la crisi ha colpito anche in Svizzera.
Per fortuna il proprietario della piccola agenzia pubblicitaria per cui lavoro è una persona dal cuore caldo, altrimenti starei con le pezze al sedere. Piuttosto che licenziare qualcuno a caso, ha proposto di tagliare lo stipendio a tutti. Guadagnare meno è pur sempre preferibile a non prendere un centesimo, mentre la disoccupazione, a mio modo di vedere, dovrebbe essere adottata sempre come soluzione estrema. Alla mia età, le possibilità di un reinserimento professionale sono davvero molto scarse.
Tuttavia… una riduzione del 30% sulle entrate pesa parecchio. Da un giorno all’altro ti ritrovi a poter acquistare un terzo in meno di tutto ciò che compravi prima. E un terzo non è affatto poco.
Stralciare gli extra non è difficile. Si può vivere alla grande anche senza andare in vacanza al mare: le sponde del lago offrono interessanti spiagge libere. Le magliette vendute nei grandi magazzini ti coprono e ti scaldano esattamente come quelle di marca, così come i mezzi pubblici, se ti sai adattare, ti scarrozzano dove vuoi senza bisogno di consumare benzina in colonna ai semafori.
I problemi emergono quando sei costretto a tagliare sugli alimenti. All’inizio, determinato a resistere, scegli di comprare le stesse cose, solo in quantità minori. Poi però, quando vai a letto con i crampi allo stomaco per la fame, realizzi che, pur di avere la pancia piena, è meglio rinunciare alla qualità. E non va bene, perché con la salute non deve mai scherzare. Se cede quella, sei fregato. Ne sei consapevole, ma non puoi fare altro.
Nessuno ti regala nulla. Se i soldi non bastano, non bastano. Punto. Non servono né gli occhi dolci né il racconto strappalacrime della tua difficile vita.
È vero: esistono le mense per i poveri, ma l’orgoglio ti impedisce di trascinarti lì. Per sederti a quel tavolo, devi prima prendere piena coscienza dell’inferno in cui sei precipitato: appartieni alla categoria dei disadattati, quelli che non riescono nemmeno a prendersi cura di sé stessi, giusto un pelo sopra i senzatetto. E non è facile, perché accettare quel piatto di minestra calda significa arrendersi. Io non voglio. Non posso. Fossi solo, sarebbe tutta un’altra storia. Ma così…
Non so quanto tempo avessi già trascorso sotto quell’albero, quando ho aperto lo zaino e recuperato il sacchetto di plastica con le pesche. Erano solo tre, ma pesavano una tonnellata. Sono scoppiato a piangere, incurante dei ragazzi che mi passavano davanti e si mettevano a ridere e sfottermi. Le lacrime mi bruciavano gli occhi e mi scaldavano le guance. A un certo punto si è avvicinato un cane che mi ha regalato qualche latrato di conforto, prima di trotterellare dietro all’anziana padrona.
Senza asciugarmi il volto, ho lasciato cadere i biscotti nel sacco della spesa regolarmente pagata: mezzo litro di latte, una piccola pagnotta, una busta d’insalata scontata del 50%, un pacco di pasta e un pomodoro. Le pesche costavano solo due franchi e venti, ma se le avessi appoggiate sul nastro, non avrei potuto saldare il conto. In tasca mi restavano solo quindici centesimi.
Recuperato un fazzoletto usato, mi sono soffiato il naso. Ho impiegato dieci minuti abbondanti per raccogliere il coraggio di alzarmi e raggiungere la fermata del bus. Alcune gocce disegnavano cerchi concentrici nelle pozzanghere sul marciapiede, mentre il cielo era sempre più metallico e opprimente.
Mentre camminavo, una strana sensazione si è impadronita di me. Ero un ladro, ma non mi sentivo in colpa. Non come mi sarei aspettato, perlomeno. Non riuscivo a capire. Era come se la mia coscienza si fosse ristretta e avesse alzato l’asticella che definisce i comportamenti ingiusti. Quasi come se… non fosse disturbata del mio comportamento illegale. O ero solo io che tentavo di scendere a patti con la realtà dei fatti? In fondo, circostanze eccezionali ammettevano condotte inconsuete. O no?
Durante il tragitto in bus, ho cambiato idea una dozzina di volte, oscillando tra un “va bene così” a un “sei un criminale”. Ero in subbuglio e non riuscivo a staccare il cervello.
I pensieri si aggrovigliavano come anguille in un secchio e non volevano saperne di stare fermi. In un paio di occasioni ammetto di aver sfiorato la crisi di panico. Sono riuscito a trattenermi solo guardando gli occhi dolci e il viso paffuto di un neonato che mi sorrideva da un passeggino.
Solo rientrato a casa, ho avuto la risposta che cercavo e mi sono calmato.
«Ciao papi! Dov’eri?»
Mio figlio ha otto anni e vede il mondo attraverso il filtro dorato della sua tenera età.
Gli unici mostri che è costretto ad affrontare sono quelli dei suoi cartoni animati preferiti e quelli che, talvolta, ancora si nascondono sotto il letto prima di dormire.
Pur essendo così piccolo, è molto sveglio. Quando sua madre ci ha lasciato, ha dovuto crescere in fretta. Non ha grosse pretese e si accontenta di poco. Però a me si stringe il cuore ogni volta che mi chiede perché non può avere anche lui un monopattino o il videogioco “che spacca di brutto che ha anche Giovanni”, il suo migliore amico.
Per un padre non c’è incubo peggiore del non riuscire a proteggere proprio figlio e a sostenerlo nella crescita. Vorrei tanto potergli comprare un bel regalo. Coccolarlo un po’, perché la sua spensierata fanciullezza non dovrebbe essere rovinata dal mio fallimento di genitore. Purtroppo, con aiuti mai concessi e con lo stipendio che prendo, non posso proprio. Un giorno capirà. Spero soltanto che prima non arrivi a odiarmi.
Un urlo acuto mi fa sobbalzare. Mio figlio corre ad abbracciarmi.
«Le pesche! Mi mancavano! Ne posso una, anche se fra un’ora si mangia?»
«Dacci dentro», rispondo. Trattengo le lacrime.
Quel sorriso è magico, unico, splendido.
Mi lascio cadere sul divano con lo sguardo inchiodato al muro e un maremoto nell’anima.
Domani ruberò ancora? Non lo so…
Spero davvero di no, ma chi può dirlo?
La salute di mio figlio avrà sempre la precedenza su ogni cosa.

 


FINE

Carità dissanguata
Un labile confine
bottom of page